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Libri: Il Vangelo proibito, David Gibbins

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TRAMA:

Al largo della costa siciliana Jack Howard, un archeologo di fama mondiale, e il suo inseparabile collega, l’ingegnere Costas Kazantzakis, sono impegnati in un’immersione subacquea alla ricerca di un antico relitto, la nave che nel 60 d.C. portava san Paolo a Roma e naufragò nelle acque del Mediterraneo. Nel frattempo una scossa di terremoto apre un nuovo passaggio nella villa dei Papiri a Ercolano e riporta alla luce una camera segreta. È una scoperta sensazionale: potrebbe trattarsi dello studio privato dell’imperatore Claudio, il luogo dove avrebbe vissuto in incognito gli ultimi anni della sua vita per custodire un oscuro segreto. E così tra antiche cripte e templi dimenticati, pericoli, enigmi e rivelazioni, i due amici intraprendono un viaggio che, da Roma a Londra, dalla California a Gerusalemme, li porterà indietro nel tempo, fino all’alba della cristianità e a un misterioso, inestimabile documento che qualcuno vorrebbe sepolto per sempre…In Vaticano diranno le loro ultime preghiere.

LA MIA OPINIONE:

E se la nostra storia fosse basata su una menzogna? Questa la scritta che, sul retro del libro, vuole spingere la curiosità del lettore a fargli comprare il libro. In realtà questa scritta ci presenta già ottimamente l’opera che ci troviamo di fronte, che sembra fare dei “se” la sua attrattiva principale. Infatti, quello che l’autore ci presenta, sono una serie interminabile di “e se…” che lui ha voluto sviluppare.
Cosa sarebbe successo se… l’imperatore Claudio (Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico per gli amici) avesse incontrato Gesù Cristo, nell’epoca in cui quest’ultimo iniziava a predicare?
E se l’avesse convinto a rilasciare un vangelo scritto, prevedendo come i suoi futuri seguaci avrebbero travisato le sue parole?
E se Claudio non fosse morto nel 54 D.C., come tutti noi sappiamo, ma avesse inscenato la propria dipartita per andare a vivere la vecchiaia in solitudine e tranquillità?
E se fosse andato a vivere ad Ercolano, dove è stato sorpreso dall’eruzione vulcanica nel 79 D.C.?
E se Plinio il Vecchio fosse stato, insieme ai suoi schiavi, l’unico a sapere che era vivo?
E se Claudio avesse lasciato a Plinio il Vecchio gli indizi per poter ritrovare il precedentemente nascosto Vangelo di Cristo?
E se, ai tempi nostri, un terremoto rivelasse un’area degli scavi di Ercolano ancora sconosciuta rimasta miracolosamente intatta, così da poter avviare questa caccia al tesoro?
E se la chiesa, per una serie di incredibilmente fortuite coincidenze, sapesse dell’esistenza di questo Vangelo fin dalla sua origine, e adesso avesse deciso che non vuole che le parole vergate dal suo Dio non vengano mai rivelate?
E se… insomma, avete capito l’antifona.

Questo libro è interamente costruito su una serie di se cui si fa sinceramente fatica a credere, su ancora più incredibili coincidenze, totalmente inarrivabili intuizioni geniali basate sul nulla, scoperte archeologiche favolose e miracolose ed eventi tirati uno dopo l’altro in modo quasi completamente scollegato.
La storia, di per sé di una banalità mostruosa – quanti ne abbiamo visti negli ultimi tempi di libri basati su questo identico concetto? Milioni. E di sicuro questo non è uno dei più brillanti – viene gestita anche male, facendo muovere i personaggi in modo poco realistico e con personalità già viste e già sentite (per dirne una, l’archeologo protagonista soffre di claustrofobia, ricorda nulla? Se avete letto i libri di Dan Brown dovrebbe esservi quantomeno familiare). La scrittura non è neance particolarmente scorrevole, solito pregio di questi romanzi senza troppe pretese, infatti fino a pagina 100/150 si compie un’estrema fatica ad andare avanti. Solo verso pagina 200 la storia comincia leggermente ad ingranare, e giusto nelle ultime 50 pagine si riesce a gustare per un effimero attimo la lettura.

Alla fine l’unica parte meritevole di non essere completamente svalutata è la fantasia dell’autore e la sua padronanza della storia. Non che ci si potrebbe aspettare di meno, visto che Gibbins è, apparentemente, prima di tutto un archeologo.
Chissà, forse viaggia così tanto con la fantasia e fa compiere ai suoi personaggi ritrovamente al limite del possibile proprio perché il suo lato archeologo non è soddisfatto dagli scavi archeologici reali. E per questo riesco quasi a provare tenerezza per lui.

Lasciamo la parola alla povera Lhyà, che questa volta è uscita veramente poco soddisfatta dal nutrimento ricevuto.

il vangelo proibito

Videogiochi: Luigi’s Mansion 2

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Luigi’s mansion 2 – o, com’è conosciuto in inglese, Luigi’s mansion: Dark Moon – è un gioco che probabilmente non ha bisogno di presentazioni di alcun tipo. Di sicuro non ha bisogno di presentazioni il fratello generalmente considerato sfigato di Mario, Luigi, che in questo gioco da un’ottima mostra di sé, intenerendo e appassionando tutti i videogiocatori.

Uscito nel 2013, seguito dell’originale Luigi’s mansion uscito nel 2002 per il Game Cube, questo titolo è uno di quei giochi che rende fieri di essere possessori della console portatile di casa Nintendo, così come il primo titolo all’epoca fu uno dei orgogli di chi possedeva un Game Cube.
Personalmente purtroppo non ho avuto occasione di fare il primo capitolo, non avendo mai posseduto la console di cui era esclusiva, quindi le mie opinioni su questo gioco si riducono ad una valutazione fine a sé stessa e priva di confronti.

Luigi’s mansion 2 inizia evidentemente diverso tempo dopo la conslusione del primo capitolo. Il gioco comincia con un Luigi intento a farsi comodamente gli affari propri, prima di essere chiamato e quindi fisicamente – e violentemente – “trasportato” dal Professor Strambic nel bunker di casa propria. La storia del gioco è semplice e lineare: una volta esisteva un cristallo, in cielo, a forma di luna oscura, che, con le sue radiazioni, permetteva ai fantasmi di rimanere pacifici e amichevoli nei confronti degli umani. Purtroppo, però, ad inizio gioco questo cristallo viene distrutto, rendendo i fantasmi dispettosi e fastidiosi, se non addirittura aggressivi e dannosi. Toccherà quindi a Luigi, sotto il controllo e con l’aiuto del professore, andare alla ricerca dei pezzi della luna per far ritornare tutto alla normalità.
La storia si divide in cinque capitoli, ognuno dei quali ambientati in una zona differente, dove avremo a che fare ogni volta con più fantasmi, più potenti ed enigmi ambientali appassionanti.

Il gioco è sicuramente un bel gioco, che diverte e intrattiene grazie ad una grafica accattivante, alle ambientazioni sempre diverse e alla capacità di farti fermare un attimo per capire come superare un punto o affrontare ghostsoflm2un nemico, anziché essere lineare e guidato come la maggior parte dei giochi oggi. C’è chi lo accusa di essere ripetitivo, ma personalmente non ho avvertito per nulla questa monotonia, complici le differenze strutturali tra le varie zone e i fantasmi sempre più aggressivi – e quindi da affrontare in modo diverso – che ti si pongono davanti.
Per me questo gioco ha un unico, grande, evidente difetto che in alcuni punti mi ha impedito di godermelo appieno e ha quindi sensibilmente ridotto la mia opinione finale del prodotto: la durata delle sessioni di gioco. Per quanto si possa tranquillamente chiudere la console 3DS per mettere in pausa un gioco, io tendo a sclerare quando ci sono, specie in una console portatile – con cui quindi gioco sull’autobus, da amici, in giro o anche sul cesso -, lunghe sessioni di gioco senza poter salvare. Specie quando, dopo un livello durato mezz’ora o anche quaranta minuti, muoio – anche perché io sono una pippa a livelli nazionali, lo ammetto tranquillamente – e devo ricominciare da capo. Ci sono stati momenti in cui sono stata fortemente tentata di abbandonare questo gioco solo per questo motivo.
Fortunatamente non l’ho fatto, perché, nonostante queste piccole difficoltà, il prodotto finale si rivela ben fatto e meritevole di essere portato a termine, con tanto di lacrimuccia che quasi ti scende al finale.

Insomma, alla fine, nonostante gli scleri, mi è piaciuto.

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Recensione videogame: Muramasa Rebirth

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Muramasa Rebirth è un porting per PS Vita di un gioco uscito nel 2009 per Wii.

E con questo potrei aver detto tutto (specialmente per quelli che “Ma 2014-06-04-205136sulla PS Vita escono solo porting di altre console!“), e invece non ho detto niente.
Perché, pur non essendo passato abbastanza tempo per considerare questa piccola perla un retrogame, è comunque un prodotto veramente tanto notevole che è una gioia, per i possessori di questa console portatile, avere l’opportunità di fare. O rifare.

Murasama Rebirth, secondo me, è una gioia per ogni senso del videogiocatore che si avvicina a questo titolo.
Ha delle musiche splendide, un gameplay che, seppur non presenta chissà quale varietà, ti incolla allo schermo e ti diverte e rilassa (c’è chi dice che questo gioco sia noioso e ripetitivo. Io l’ho giocato per più di 27 ore senza stancarmi mai, e avrei potuto continuare ancora a lungo), ma, soprattutto, ha un’estetica – perché non si può semplicemente definirla grafica – a dir poco splendida. Artistica. Meravigliosa.
2014-06-12-141014La storia, infine, pur non presentando notevoli qualità di profondità, è una storia che coinvolge, e che presenta numerosi picchi di coinvolgimento emotivo, anche grazie alla “trovata” dei tre finali, che presentano tre diverse possibili conclusioni delle vicende dei personaggi che, nel bene e nel male, ci hanno accompagnato e a cui ci siamo, nonostante tutto, affezionati.

E’ un gioco che si fa giocare e rigiocare – se si vuole completare al 100% bisogna affrontare tre finali per ognuno dei due personaggi giocabili, e per fare ciò sono necessarie diverse ore a grindare exp senza pausa –  senza, per me, smettere di essere piacevole, rilassante, e visivamente sorprendente.
Un gioco che, sotto tutti gli aspetti, è, sempre secondo il mio parere, un gioco imprescindibile per ogni possessore di PS Vita.

Lascio infine la parola alla mia nuova assistente Lhyà (sì, ho fatto in fretta) per il verdetto finale.

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Recensione libri: L’Uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Oliver Sacks

cappello

Prima recensione libresca dopo due anni! Spero solo di non essere troppo arruginita…
Che poi in realtà non c’è molto da recensire, ma voglio parlarne comunque.

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello è un saggio neurologico, una raccolta di casi di lesioni encefaliche di vario tipo con cui il famoso neurologo si è trovato ad avere a che fare nell’arco della sua carriera.
Non so se sono stati i casi più formativi della sua esperienza di neurologo, i più impressi nella sua mente o, semplicemente, i più particolari. Quel che è probabile è che, per ogni tipo di lesione di cui ci vuole parlare, per ogni approfondimento che ci vuole porre, sono stati i più emblematici ed esemplificativi.

Il libro si divide in quattro sezioni, ognuna dedicata ad un tipo di pazienti e di patologie differenti, ognuna presentata da una prefazione che ci anticipa alcuni casi, evidenziando questo o quel dettaglio interessante con cui ci ritroveremo a che fare di lì a poco.
Sacks scrive in modo esemplare, romanza il grottesco e l’inquietante – perché, per quanta pena ed empatia ci possano trasmettere gli sfortunati pazienti di cui ci racconta, pur sempre grottesco ed inquietante ci apparirà la loro esistenza, la loro stessa possibilità, il fatto che un giorno, di punto in bianco, certe patologie potrebbero “risvegliarsi” anche in noi, e non c’è forse cosa al mondo capace di inquietare di più la mente di una persona in buona salute  – al punto che riesce quasi diffcile credere ai casi più estremi.
Il racconto che da il titolo al romanzo, ad esempio, risulta così accattivante nella scrittura, e allo stesso tempo così assolutamente lontano dalla esperienza quotidiana di qualsiasi persona normale, da apparire quasi inconcepibile, un frutto della fervida immaginazione dell’autore. Forse proprio per questo è il primo di questa raccolta: ci mette subito di fronte con l’estrema follia che può raggiungere questa sfilza di casi neurologici, ci costringe fin da subito ad accettare l’inconcepibile. Non ci viene chiaramente detto, ma solo se riusciamo ad accettare che Sacks non ci sta prendendo in giro quando ci racconta di un uomo che ha effettivamente fisicamente scambiato la moglie accanto a lui con un cappello da mettersi in testa, possiamo preseguire, accettando passivamente l’abisso degli orrori in cui la mente umana può gettarci.

E così faremo la conoscenza, ma anche amicizia, grazie all’empatia naturale che Sacks sembra provare con i suoi pazienti e trasmetterci attraverso le sue parole, con ogni tipo di persone: donne che hanno perso la propriocezione – ecco, sì, scopriremo anche dell’esistenza di questo “sesto senso” vitale eppure sconosciuto ai più -, autistici artisti, persone ferme ad un giorno passato della loro vita, persone che si identificano con i propri tic, e tanto altro ancora.

La lettura di questo saggio è piacevole e scorrevole. Gli orrori della mente acquistano una loro forma, e acquisiscono anche fascino e passione nella loro inquietudine. Soprattutto, leggere della forza di alcuni soggetti nel cercare di riprendersi, così come della simpatia che riescono, nonostante tutto, a suscitare in chi gli sta intorno, fa nascere una luce in questa oscurità.

In sostanza, che dire? Una lettura consigliatissima a chiunque sia anche solo superficialmente interessato all’argomento. Un libro ben scritto, appassionante e sicuramente interessante.

VOTO: 8/10

Recensione Libri: Cinquanta Sfumature di Grigio, E. L. James

Ok, dunque. Recensire questo libro, per me, oggi, sarà un’impresa difficile.
Non perché sono contrastata tra un perverso piacere provato nel leggerlo ed un odio superficiale. Tutt’altro. Perché voglio mantenere un certo livello di obiettività, e con questo libro non sembra essere una cosa facile.
Basta guardarsi intorno. La maggior parte delle reazioni negative è stata di tre tipi:
– l’orda delle femministe indignate. “Ma come, abbiamo lottato anni per i nostri diritti e poi ci viene propinata questa pappina in cui si loda la sottomissione della donna!“. A me questa reazione fa ridere. E’ come dire che abbiamo lottato per anni per rendere illegale la pedofilia, eppure ancora si trova Lolita nelle librerie. Sì, per carità, Lolita è un capolavoro e questo è un orrore letterario, ma non credo si possa concedere la libertà di stampa solo se il valore dell’opera è alto. Inoltre, non sono nemmeno d’accordo nel sostenere che è un libro maschisilsta che sostiene che la donna debba essere sottomessa. La sottomissione di cui si parla in questo libro è una sottomissione sessuale, e se a qualcuno piace, affari suoi. Di certo non devo essere io a giudicare i gusti sessuali della scrittrice o dei lettori;
– l’ondata degli offesi dal marketing – di cui, lo ammetto, faccio parte. Quelli che “Ci stanno rompendo le palle con tutta questa pubblicità“. Parole sante, ma di certo non è colpa del libro in sé e per sé, quindi cerchiamo di dimenticarci tutto questo osceno rimbalzo mediatico a cui siamo stati sottoposti;
– infine, i delusi, quelli che “Mah, dicevano che era il libro sul sadomaso per eccellenza, eppure ci sono a malapena qualche sculacciata e giusto un paio di manette. Dicevano che era un libro erotico ma non si basa solo sul sesso. Dicevano che…“. Ebbene, anche qui, secondo me, la colpa non è del libro. E’ colpa di questa malata manovra di marketing che è stata attuata per portare le vendite alle stelle. La manovra è riuscita, e, come detto sopra, non si può non esserne irritati. Ma io me la prendo col pubblicitario, non con un libro che di certo non ha chiesto di essere pubblicizzato in questo modo.
Sì, ho un punto di vista piuttosto malato, lo so.

Fatta questa premessa, andiamo finalmente a parlare del libro vero e proprio.

LA SCRITTURA

La scrittura è indubbiamente scorrevole, e so che per molti questo è un pregio. A me, purtroppo, non basta.
Non mi basta che la scrittura sia scorrevole se questo effetto è dato da una velocità quasi riassuntiva della narrazione. Nelle prime pagine particolarmente, anche se per fortuna quest’effetto si attenua andando avanti, si ha l’impressione di stare leggendo il riassunto del riassunto del diario di un’adolescente raccontato alla compagna di banco durante i quindici minuti di intervallo. Le frasi smozzate scorrono velocemente, raccontando senza emozioni e senza accenti una storia che quasi sembra essere quella di qualcun altro. Uno stile che di per sé non è male, ma che personalmente trovo totalmente inadatto per un racconto in prima persona di un’esperienza amorosa.
Il registro linguistico, poi, è ripetitivo, ridondante, scarno e privo di variazioni. Anche qui, visto che la voce narrante si vanta di essere una letterata, ci si potrebbe aspettare di meglio. Un esempio tra tutti, portato da molti recensori, è il modo in cui la cara Ana definisce le proprie intimità.
Le parti intime, le parti basse, le pudenda, la vagina, l’apparato riproduttivo, la fica, il frutto proibito, la vulva, il sesso femminile, la patata, i genitali femminili, l’organo sessuale… sono semplicemente , scritto rigorosamente in corsivo.
Lei prova piacere , lui la tocca , lei sente fremere, lui la bacia , lei… di nuovo sente fremere . Eccetera. Solo, sempre e comunque, .
Scelta che potrebbe anche andare bene finché è una casta e virginea ragazza che non sa neanche cosa vuol dire “toccarsi“. Ma quando si trasforma in una regina del sesso ventiquattro ore su ventiquattro, ad un certo punto, potrebbe anche diventare giusto leggermente più spudorata. Cambiare proprio un pelo il registro linguistico. Perché, sinceramente, alla cinquecentesima volta che leggo “Lui mi toccò , proprio “, ho voglia di prendere il libro e lanciarlo dalla finestra.
Ovviamente il problema del registro linguistico non è un problema solo di questo termine, ma questo è il caso più eclatante dell’intero libro.

I PERSONAGGI

Ho letto, in giro, chi ritiene che “Noi donne leggiamo questo libro solo per Grey. E’ affascinante, è bello e misterioso, è il prototipo dell’uomo che vorremmo avere. Questi libri si fanno leggere solo per lui“.
Indubbiamente il caro Mr. Grey ottimo direi – è reso come un personaggio affascinante, carismatico, magnetico. Ma di qui a dire che è un personaggio reso talmente bene da farci andare avanti nella storia solo per lui… no comment.
Tutti i personaggi, in questo romanzo, mancano, per non dire di intelligenza, di logica narrativa.
Analizziamoli nel dettaglio.
GREY: una pagina le dice “Devi starmi lontana Anastasia, non sono il tipo per te” (suona familiare? No? Beati voi), tre pagine dopo le regala libri dal valore superiore ai ventimila dollari. Facile starti lontano così, no? Ovviamente la scusa è sempre quella del “Hai qualcosa a cui non riesco a resistere, non riesco a starti lontano“. Ma vaffanculo.
Non ci dimentichiamo poi che lui “non dorme con nessuno“, e ogni singola volta che capita l’occasione dormono insieme. Lui “non fa l’amore. Fotte… senza pietà“, dichiara, per poi pregarla, cinque minuti dopo, di fare l’amore.
E non venitemi a dire che è perché ne è innamorato, grazie. Uno non si innamora e non butta all’aria trent’anni di pratiche e solide convinzioni dopo due incontri.
E non sto a sottolineare il fatto che, più che una sottomessa, quest’uomo vuole una bambina. “Mangia“. “Asciugati i capelli“. “Lavati i denti“. Ma che cazz…

ANASTASIA: ci viene presentata come un’handicappata con poche capacità motorie. La prima cosa che fa appena entrata nell’ufficio di Grey è cadere e stare cinque minuti prostrata nel suo ufficio prima di capire da che parte sta il sopra e da che parte sta il sotto. Poche pagine dopo inciampa e rischia di essere falciata da un ciclista, giusto in tempo per farsi prendere al volo da Mr. Grey – ottimo direi – e regalarci una scena strappalacrime in cui lei freme per essere baciata e lui la respinge malamente. Poi, a quanto pare, l’escamotage delle cadute non è più necessario. Nelle restanti seicento pagine di libro, infatti, non inciampa più. Neanche quando si ritrova a correre con i tacchi alti per un giardino infangato.
Poi. Alla prima volta che piange la sua migliore amica comincia a strillare “Che succede Ana?! Perché piangi? Tu non piangi mai!“. Piange tra le otto e le undici volte nel libro, a volte più di una volta al giorno. Dico, ma se ci vuoi rappresentare un’eroina forte e dura, è così difficile cercare di mostrarcela in questo modo?
Ana, infine, ci viene descritta come una donna di cultura, una neolaureata in letteratura con un bagaglio culturale non indifferente. Lei legge solo classici, lei è l’ultima Bohèmienne dei nostri tempi, lei è la donna più intelligente che tutti gli altri personaggi del libro conoscono. Poi, quando alla radio Grey mette Verdi, non solo non lo riconosce (cosa che ci può anche stare, non sono così pretenziosa), ma lo cambia con una canzone di Britney Spears.
Tu, scrittrice, vuoi che odio svisceratamente il tuo personaggio.

LA MIGLIORE AMICA DI ANA: prima lancia l’amica tra le braccia del bello, ricco e misterioso Grey, poi non fa che dirle di stargli alla larga. Cerca di farlo incazzare con lei dicendo che vuole proteggerla. Poi, ad un certo punto, parte dicendo che le dispiace lasciarla in un momento difficile, ma non riesce neanche a trovare trenta secondi per farle una telefonata e assicurarsi che non sia morta.

Potrei continuare così per ore, analizzando ogni singolo personaggio fino a concludere con le semplici comparse del libro: tutti, infatti, sono costruiti sulla stessa falsariga dei precedenti.

LE SCENE DI SESSO

Probabilmente quelle descritte meglio. Sono state quelle che, all’inizio, un po’ mi hanno intrigata e un po’ colpita, stile scarno e registro linguistico ripetitivo a parte.
Dopo la terza volta che fanno sesso, però, ci ritroviamo di fronte ad un grave problema. Diventa cioè presto evidente che la cara E. L. James o ha visto troppi porno, o ha solo una vaga idea di come funzioni un uomo. O forse la vaga idea ce l’ho io, boh, ma a me un tizio che riesce a fare sesso cinque volte a distanza di pochi minuti l’una dall’altra risulta poco credibile. O gravemente malato.
Io al posto di Ana un controllino glielo suggerirei.

Questo tizio fa invidia persino al mitico Barney Stinson. Solo che persino Barney ogni tanto si stanca…

LA STORIA

Ecco, andiamo al punto dolente del libro.
Perché, parliamoci chiaro: al fatto che non mi sarebbe piaciuta la scrittura, che mi avrebbero irritato i personaggi, e a tutto il resto di cui ho parlato, ero preparata. Ma al fatto che la storia mi avrebbe totalmente, completamente e definitivamente annoiata… no.
Tralasciando le suddette scene di sesso che ravvivano un po’ il mortorio di questa storia, il resto del romanzo, per me, è un buco nero. Nonostante lo stile scorrevole mi trascinavo avanti a fatica, e più di una volta mi fermavo chiedendomi “Ma che diavolo sto leggendo? Perché non succede nulla?“.
Noioso.
Chi lo sa, forse perché è la copia sputata di Twilight – senza vampiri ricoperti di brillantina e con il sesso -, forse perché ad ogni dialogo con lui o con gli amici di lei che ci provavano pensavo: “Battuta già usata. Situazione già sentita. Stessa identica cosa di Twilight“.  Neanche Twilight, per l’appunto, era riuscito a schifarmi ed annoiarmi tanto.
Abbiamo dozzine di pagine di seghe mentali di lei, intervallate dagli incontri sessuali con lui, durante i quali lei butta all’aria tutte le precedenti seghe mentali, le riflessioni e le decisioni che aveva preso. Poi, appena lui sparisce, ritornano le seghe mentali.
Abbiamo un contratto tra amanti che ci è stato fatto leggere quattro fottutissime volte, e che alla fine lei neanche firma.
Abbiamo altre seghe mentali, lacrimoni, piagnistei, lei che chiede cose e quando le ottiene frigna, lui che è tutto “No, stammi lontana, ma non ti allontanare troppo da me“, gli amici che “Tu sei l’unica donna che voglio, anche se mi rifiuti da cinque anni non voglio cercare una delle altre migliaia di donne al mondo disposte a darmela“, la famiglia che è tutta “Ricordati sempre che noi ci siamo, però vedi di chiamarci tu che alzare la cornetta per sapere come stai mi secca troppo“.
Insomma, abbiamo tutta una serie di cose che, alla fine, per me, rendono questo libro totalmente illegibile.

E saluti all’obbiettività.

VOTO: 2,5/10

Recensione Libri: Hyperion, Dan Simmons

TRAMA:

Sette pellegrini in viaggio verso le Tombe del Tempo. Ciascuno con un terribile segreto e una speranza. Attraverso la galassia in guerra vanno incontro allo Shrike: un semidio metallico e assetato sangue, dominatore di Hyperion. Nella valle delle Tombe del Tempo, di fronte allo Shrike, si compirà il loro destino. Per uno, uno solo, la realizzazione del più grande dei sogni. Un’affascinante e del tutto inedita epopea stellare. Una formidabile avventura nel tempo e nello spazio, fino alle ultime frontiere della scienza e della fantasia.

RECENSIONE:

Come al solito, nell’iniziare questo libro avevo solamente una vaga idea di quello a cui andavo incontro. Per questo, onestamente, nelle prime pagine, nonostante mi fosse stato entusiasticamente consigliato, mi sono ritrovata a storcere un po’ il naso. Non che mi dispiacesse, per carità, ma mi stava lasciando leggermente perplessa.
Fortunatamente, avanzando con la lettura, sono stata pienamente contraddetta.
Hyperion è un libro di fantascienza, anzi, un Signor libro di Fantascienza, con la F maiuscola. Era dai tempi della Fondazione di Asimov che un libro di fantascienza non mi lasciava tanto soddisfatta.
Il mondo rappresentato in questo fantastico libro è, ovviamente, un nostro futuro. Non ci viene fatta una lunga, noiosa e dettagliata presentazione: già dalle prime pagine veniamo catapultati nello scorrere degli eventi, nei vicoli delle città, nelle tortuose ambiguità dei ricordi dei vari personaggi giostrati con maestria dall’incredibile Simmons.
Piano piano, la storia, la civiltà e la complessa struttura di questo universo ci viene chiarita. Velo dopo velo viene sottratto, mostrandoci questa organizzazione incredibile, fin nei suoi più profondi intrighi e orrori nascosti.

Siamo nel ventottesimo secolo. Un grande Errore ha distrutto la Vecchia Terra (ma si tratterà veramente di un errore?) e l’umanità si è sparpagliata in decine di pianeti più o meno piccoli, una rete di mondi colonizzati governata dall’Egemonia. Hyperion è uno di questi pianeti, non uno dei più grandi, non uno dei più importanti politicamente. Anzi, a dire il vero, non fa neanche ancora parte completamente dell’Egemonia. Ma qui risiede qualcosa di unico e irripetibile: su Hyperion, infatti, abita lo Shrike, una sorta di divinità meccanica che sembra aver potere sul tempo e sulla vita degli uomini.
Ogni anno, molte persone – scelte tra i più fedeli – fanno un pellegrinaggio allo Shrike, con qualche desiderio in tasca. I pellegrini devono andare in un numero primo, e solo il desiderio di uno di loro verrà realizzato. Gli altri verranno assassinati.
In un momento in cui una nuova guerra sta per scoppiare, un ultimo pellegrinaggio viene mandato incontro a questa divinità. Sette, tra uomini e donne, sono diretti ad incontrare lo Shrike. Il loro è un pellegrinaggio più unico che raro: nessuno di loro, infatti, è un fedele di questa religione.
Per affrontare il viaggio, e con la speranza che questo possa salvare le loro vite nel momento chiave, i sette decidono di narrare ognuno la propria storia.
Ed è in questo che risiete il nucleo pulsante di questa strepitosa opera di fantascienza.
Piano piano, racconto dopo racconto, il puzzle di questa società incredibile si completa, si complica, si rafforza e si dipana, rivelando intrighi, misteri, magie del futuro e una storia profonda e ben strutturata.
Hyperion sembra ricalcare le orme del celebre “The Canterbury Tales“, sebbene il numero di pellegrini sia molto inferiore.
Il mondo, anzi, il futuro che ci viene presentato, pur nella sua assurda fantascientificità, appare solido e credibile. Anche questa era una sensazione che non provavo dai tempi della Fondazione. L’universo nella sua impossibilità sembra plausibile, anzi, probabile. Nella sua descrizione minuziosa e puntigliosa sembra già reale, già avvenuto. E’ un dono che pochi scrittori possiedono, quello di creare, con una tale precisione e una tale consapevolezza di dettagli, un intero universo, capace di portare il lettore a provare l’ambigua sensazione di conoscerlo da sempre.

Insomma. Dopo tante parole, il concetto è solo uno, puro e semplice: Hyperion è un libro meraviglioso. Non credo che si debba essere appassionati di fantascienza per apprezzare la sua sottile complessità, il suo universo intricato, la sua scrittura precisa e coinvolgente.
Nonostante sia il primo volume di una tetralogia, è un libro autoconclusivo. Nelle intenzioni di Dan Simmons, infatti, non doveva avere altri seguiti. Sicuramente, personalmente, leggerò anche i seguiti, ma già questo libro, da solo, è un piccolo tesoro.
Da leggere. Raramente mi sono sentita di consigliare un altro libro tanto quanto consiglio vivamente questo.

VOTO: 10/10

Recensione Libri: Rabbia, Chuck Palahniuk

TRAMA:

“Come la maggior parte delle persone, anch’io non avevo mai incontrato Rant Casey né ci avevo mai parlato finché non è morto. Con la gente famosa è sempre così, quando tirano le cuoia la loro cerchia di amici intimi si ingantisce.”

Rabbia prende la forma di una storia (romanzesca) orale di Buster “Rant” Casey, nella quale un assortimento di amici, nemici, ammiratori, detrattori e familiari dice la sua su questo personaggio ambiguo, morto in circostanze tanto misteriose quanto leggendarie, che forse è stato (ma forse non è stato) il più efficiente serial killer della nostra epoca.

“Buster Casey sarebbe dunque per la rabbia ciò che ‘Typhoid Mary Mallon è stata per il tifo, Gaetan Dugas per l’Aids e Liu Jian-lun per la Sars.”

Buster è cresciuto in una cittadina nel mezzo del nulla, assetato di sensazioni forti in un mondo di videogames e di soffocante conformismo. Dopo le prime ribellioni al liceo scappa dal suo villaggio natale alla volta della grande città: cerca qualcosa, una comunità di persone, un’emozione inimmaginabile, un bandolo della matassa, un senso per la propria esistenza. E ben presto diventa il leader di un gruppo di giovani dediti a una sorta di rito-gioco di demolizione urbana chiamato “party crashing”: nelle notti prescelte i partecipanti decorano in modi bizzarri le loro auto e quando arriva il momento cominciano ad attaccarsi a vicenda cercando di cozzare con le proprie vetture contro quelle degli altri. Ed è proprio in occasione di una di queste violente cacce notturne che Casey incontra la più spettacolare e tragica delle morti al volante. Ma Casey è morto davvero?

RECENSIONE:

Palahniuk era uno dei miei autori preferiti, intorno ai 19/20 anni. Entravo in libreria e, se non trovavo altro da prendere, me ne uscivo con uno dei suoi libri sottobraccio. Ma probabilmente non è uno di quegli autori di cui si possa abusare senza risentirne. Con Invisible Monsters e Cavie, infatti, raggiunsi il limite di pulp che potessi sopportare, e lo abbandonai, complice il fatto che non vi vedessi più nulla né di originale né di innovativo in questo autore che sembrava voler continuamente fare a gara con sé stesso a chi disgustava di più il lettore.
Eppure, dopo quasi quattro anni di distanza, ho deciso di riprovarci con Rabbia.
La lettura è stata sorprendente, come il ritrovarsi con un vecchio amico con cui incredibilmente sentiamo di avere ancora molto da condividere. Oltretutto, probabilmnente responsabile anche il lungo distacco, le parole sembravano nuove, i contenuti rinfrescati, la storia colma di nuovi significati oltre il semplice disgusto.

Ma, appunto, parliamo della storia.
Fin dalle prime parole ci si trova di fronte a qualcosa che suona strano. Ci si ferma interdetti, non comprendendo esattamente cos’è che provoca questa incertezza. “Mah“, si pensa, “è Palahniuk“, e si va avanti.
Le voci che si uniscono nel raccontare la storia di Buster “Rant” Casey sono diverse e ben coreografate, sembra quasi di sentirle parlare nella propria testa, ognuna con un accento ed un’inflessione diversa, ognuno con una proprietà dialettica ed un bagaglio culturale differente. Alcuni parlano perché hanno vissuto in prima persona gli eventi narrati, altri solo per sentito dire all’interno del paese, altri riferiscono quanto Rant stesso ha narrato. Per questo le varie voci narranti sembrano a volte discostarsi leggermente una dall’altra, ma proprio per questo, finiscono col completarsi armoniosamente.

Rant è un ragazzino anormale, indubbiamente. La sua famiglia non è delle migliori, lo stesso padre sembra fregarsene del figlio. Ha doti incredibili: ha i sensi particolarmente sviluppati, ed un’incredibile resistenza ai veleni, per i quali nutre uninsana dipendenza che lo porta ad infilare mani e braccia in ogni tana di animale selvatico che incontra.
Ed è affetto dalla rabbia. Malattia cui crea una vera e propria epidemia nel suo paese, malattia che lo renderà macrabamente famoso.
La sua vita, descritta attraverso un coro di voci che lo plaudono o lo rimproverano, lo rimpiangono e lo recreminano, scorre tra qualche scappatella e qualche ribellione, finché non decide di lasciare il paese e raggiungere la città.
A questo punto c’è il dialogo chiave che permette di cominciare ad avere un sospetto fondato su cosa sta succedendo.
Subito dopo, tutto cambia.
Quello che poteva sembrare un normale, per quanto bizzarro, romanzo di narrativa, si sconvolge, presentando un mondo totalmente diverso da quello che conosciamo e in cui, fino a quel momento, credevamo fosse ambientato il romanzo. La civiltà che ci viene presentata è simile ma avanzata, con meno diritti, classi sociali differenti, e tecnologie totalmente sconosciute e quasi fantascientiche.
In questo mondo, Rant si ritrova a compiere ricerche su sé stesso, per poi scomparire, lasciando alle sue spalle amici adoranti e una taglia sulla testa.
Da questo punto non dico più nulla, perché ogni parola potrebbe rovinare il gusto di una lettura imprevedibile e sbalorditiva, accattivante e gustosa.

Rabbia è un romanzo strutturato perfettamente e presentato ancora più perfettamente. L’unica pecca sta in qualche passo che si dilunga un po’ troppo nello spiegare cose che, bene o male, si intuiscono facilmente.

Rabbia è un romanzo che consiglio vivamente a chi ha voglia di una lettura inconsueta, che è disposto ad accettare i dettagli più morbosi – ma neanche tanto, per gli standard di Palahniuk – e ad ascoltare le storie più incredibili.
Alla fine, chi può sapere qual è la realtà?

VOTO: 9/10

Recensione libri: La ragazza drago – L’ultima battaglia, Licia Troisi

TRAMA:

Nidhoggr, la malvagia viverna che un tempo cercò di distruggere l’equilibrio della natura, è tornato. Il sigillo che lo teneva imprigionato è stato infranto e il suo potere ha soggiogato la Terra intera, trasformando tutti gli uomini in mostri disposti a qualunque sacrificio per sconfiggere Sofia e gli altri Draconiani. La loro missione è trovare il frutto di Thuban, l’ultimo e il più importante dei cinque globi magici che faranno risplendere di nuova vita l’Albero del Mondo e riporteranno sulla Terra il regno di Draconia. Ma Ofnir, il nuovo alleato delle viverne, ha frantumato il frutto contro il sigillo per liberare il suo padrone, e i frammenti sono nascosti in tre luoghi misteriosi sparsi per l’Italia. Nell’ultima, fatale battaglia che Sofia dovrà combattere, ostacoli imprevisti si opporranno alla vittoria: i draghi che hanno sempre vissuto nel cuore dei suoi compagni rischieranno di svanire per sempre, e con loro il regno di Draconia…

RECENSIONE:

L’ultima battaglia è il quinto e ultimo volume della saga de “La ragazza drago“. Recensire solo l’ultimo volume potrebbe essere fuorviante, ma, in parole povere, basti sapere che i quattro volumi precedenti sono libri semplici, banali, senza nessun punto notevole da segnalare. Nessun vero pregio – secondo me – e nessun difetto abissale che ne rende rilevante in un senso o nell’altro la lettura.
Però, visto che ho l’insopportabile abitudine di tentare di portare a termine le saghe che comincio, mi sono allegramente incartata anche nella lettura di quest’ultimo volume, senza nessuna aspettativa e senza nessuna reale speranza, prima di affrontarlo, se non quella di non restare totalmente disgustata.
Sorprendentemente, però, si è rivelato un libro che considererei semplicemente brutto, se non fossi un’inguaribile generosa: pertanto lo considererò giusto brutto con riserva.

Il fatto è che questo libro, in fin dei conti, è stato una delusione. Non perché l’alto livello dei capitoli precedenti avesse fatto sperare in un finale epico, tutt’altro: perché, nonostante la mediocrità degli altri quattro volumi, questo episodio, all’inizio, sembrava essersi rivelato promettente. Il prologo e lo scoppiettante primo capitolo, insomma, avevano fatto ben sperare: sembrava prometterci azione, avventura, e seri sacrifici e dolori da parte dei ragazzi draconiani. Mi aspettavo un percorso complesso per trovare una soluzione alla difficile situazione con cui ci troviamo nelle prime pagine, e speravo in qualcosa che, dopo quattro libri anonimi, mi facesse dire “Ma dai, ne è valsa la pena”.
Purtroppo affidare troppe speranze ad un’autrice che già si sa accarezzare raramente la sufficienza è sempre una mossa azzardata. Infatti, già dal secondo capitolo, ci si ritrova ad avere a che fare con le stesse solite forzature, con la stessa trama impalpabile e, insomma, col contrario di tutto ciò che sembrava esserci stato promesso all’inizio del libro.
La scrittura della Troisi, nonostante anni di critiche da più fronti e di accurate analisi di ciò che dovrebbe cambiare, non sembra essere minimamente migliorata. Le descrizioni continuano ad essere semplicistiche e ripetitive fino alla nausea (qualcuno le regali un dizionario di sinonimi, ve ne prego. Per dirne una, quando i ragazzi si dividono per cercare tre pezzi dello stesso oggetto e tutte e tre le volte ci viene descritto allo stesso, identico modo, stavo rischiando un attacco d’isteria. E’ così difficile variare leggermente il registro a seconda dei diversi ragazzi, o utilizzare termini differenti che non renda la lettura un eterno déjà vu?). Il PoV continua imperterrito ad essere altanelante al punto da sfiorare la schizofrenia. Abbiamo a che fare con sei ragazzi, il cui punto di vista, spesso e volentieri, viene approfondito in sequenza senza quasi farci capire chi sta pensando cosa. Il momento in cui lei pensa quanto è figo lui e nel rigo succssivo lui pensa quanto tiene a lei, è un momento di toccante deficienza confusionaria. La trama, come già detto, resta totalmente inconsistente nonostante le promesse iniziali.

Invece di regalarci lo scontro finale epico che ci eravamo preparati a gustare, in questo libro la Troisi continua a tirarla per le lunghe con una sola motivazione: dare il tempo ai sei draconiani di andare totalmente fuori personaggtio e accoppiarsi (non in senso biblico) allegramente tra di loro. Ogni spossante capitolo sembra un’insipida scusa per fare unire più a fondo maschietti e femminuccie, gestiti con un’impacciataggine a dir poco imbarazzante. La ricerca dei frammenti non è solo un’insopportabile scusa per allungare il brodo all’inverosimile, servono all’autrice per riempire le pagine di smancerie totalmente fuori luogo in quella che ricorda vagamente un’apocalisse zombie che solo la rapidità può scongiurare.
Quando finalmente arriviamo all’agognata conclusione, nonostante le accurate preparazioni, tutto si svolge, in breve, ad una velocità immotivata e inspiegabile: i pochi sacrifici che i nostri eroi erano stati costretti ad affrontare si sono rivelati non essere dei veri sacrifici, e, nonostante il briciolo di fatica che ha comportato l’arrivare fin lì, tutto si è rivelato essere di una semplicità quasi offensiva.
L’epilogo, poi, cui avevo abbandonato le mie residue speranze, si è rivelato inconcludente e quasi odioso nel modo in cui si sbologna tutti i problemi in modo totalmente irrispettoso delle aspettative del lettore. In modo totalmente insensato la situazione, dopo quello che ho già definito essere simile ad una sorta di apocalisse zombie (ma senza zombie), ritorna ad un periodo precedente, e assolutamente nessuno conserva memoria di quanto successo, a parte i sei draconiani. Ma perché, se non è rimasto più nulla in Terra che conservi un tale potere? Perché sì. Probabilmente perché era troppo difficile per la nostra cara scrittrice trovare un finale che fosse contemporaneamente sensato e che le permettesse comunque di chiudere con il classico e vissero felici e contenti.
Infine, nonostante le numerose critiche ricevute sull’argomento, la nostraLicia sembra non avere ancora imparato che, ad un lettore anche solo minimamente informato, farebbe piacere non leggere ogni qual volta di armi costruite con materiali improbabili, dalle impugnature scolpite in taglienti pietre preziose dalle forme quasi letali.
Insomma, nonostante l’inizio promettente, mi ha infastidito e mi è piaciuto persino meno dei volumi precedenti.
La mia generosità va solamente perché, al solito, l’unico pregio che la Troisi si ritrova è quello di scrivere in una maniera scorrevole che, nonostante tutto, permette di godersi qualche ora di lettura intensa staccando la mente da tutto.

VOTO: 4.5/5

Recensione Libri: Il Signore della svastica, Norman Spinrad

Già nella copertina: “Se Hitler fosse stato uno scrittore, questo sarebbe stato il suo romanzo più allucinante”

TRAMA:

Il romanzo è presentato dall’autore come il capolavoro di un famoso scrittore di fantascienza, Adolf Hitler, esiliato dalla Germania nel 1913 e morto a New York nel 1954. Nelle settimane precedenti la sua morte, avrebbe scritto la storia di Feric Jaggar, il signore della svastica, una storia folle e surreale di conquista dell’universo da parte di una razza superiore di Veri Uomini. Nel 1142 A. F. (anno del Fuoco) il vero uomo Jaggar, alla testa di un esercito di fanatici, le SS, muove alla conquista del mondo, sterminando ogni forma di vita che non corrisponda ai suoi canoni di razza pura e perfetta.

RECENSIONE:

Il signore della svastica è unanimemente riconosciuto come il capolavoro di Adolf Hitler, il celebre scrittore di fantascienza morto a New York nel 1954. La genesi del romanzo, che precedette di poche settimane la morte dell’autore, è singolare come il contenuto del libro. Hitler scrisse la storia di Feric Jaggar, il signore della svastica, in una sorta di delirio allucinato.

Fin dalle prime, bizzarre righe di quest’opera inconsueta, si ha l’impressione di essere stati catapultati in un altro mondo, in un universo parallelo e stranamente sbagliato. Ed è proprio questo lo scopo che sembra voler raggiungere il brillante Spinrad. Apparentemente, l’autore sembra voler rispondere alla domanda: che ne sarebbe stato dell’odioso despota se, invece di continuare per la strada che lo portò ad essere il leader politico più invasato degli ultimi tempi, fosse emigrato in America? La risposta ci viene fornita fin dalle prime pagine: sarebbe diventato un disegnatore (molti sanno già che Hitler aveva notevoli aspirazioni artistiche), illustratore per riviste di fantascienza, e infine scrittore del genere e esponente importante in questo ambiente.
E’ quello che abbiamo di fronte è il romanzo che, chissà, forse Hitler avrebbe scritto se le cose fossero andate diversamente.

Chi sa se il nostro caro Waloternativo ha avuto “l’onore” di conoscere Hitler scrittore. Tra mondi paralleli ci si intende, no…

L’oscuro emigrante tedesco costretto ad abbandonare la Germania nel 1919 in seguito al fallimento di un putsch di elementi di estrema destra rivive nel romanzo i suoi sogni di dominio del mondo. Una volontà di potere folle e disumana pervade tutto il libro, storia di una delirante conquista dell’universo da parte di una razza superiore di Veri Uomini. La forza fantastica di queste pagine è tale che il lettore si domanda smarrito che cosa sarebbe potuto accadere se, invece di diventare uno scrittore, Hitler avesse potuto portare avanti i disegni politici intessuti in un momento di illusoria frenesia nella Germania sconvolta della Repubblica di Weimar.

Dare un giudizio finale a questo romanzo è qualcosa di molto difficile, per me.
L’idea che ha dato vita a quest’opera, e i passi iniziali della sua realizzazione, sono a dir poco geniali. Durante la lettura dei brevi passi che ho citato, mi sentivo emozionata, divertita, eccitata e conquistata.
Però, quando si passa alla lettura del romanzo (vincitore del premio Hugo in questo mondo parallelo immaginato da Spinrad), non si può non rimanere leggermente delusi.
Quest’opera geniale si divide in tre parti. La preparazione al romanzo di Hitler – geniale -, il romanzo di Hitler – noioso -, e l’analisi del romanzo – di nuovo geniale.
Se avessi letto solamente il romanzo, il parere sarebbe stato indubbiamente negativo. Le descrizioni forzate e ridondanti, ripetitive e noiose, la trama banale dell’eroe predestinato e perfetto che deve sconfiggere i cattivoni brutti, sporchi e puzzolenti, le battaglie descritte con un’ossessività quasi inquietante e morbosa per la violenza e il disgustoso, e il linguaggio stentato e incespicante, fanno di quest’opera un romanzo a dir poco mediocre.
Terminata la lettura del “romanzo di Hitler“, però, scopriamo quello che forse avremmo potuto immaginare dall’inizio, visto come ci viene presentata l’opera: la bruttezza di questo romanzo è stata accuratamente scelta, levigata e curata. Norman Spinrad s’è preso l’agognata libertà di scrivere un romanzo brutto affinché sembrasse brutto dall’inizio alla fine.
I personaggi piatti e insignificanti, la trama ordinaria e noiosa, le descrizioni ripetitive e rivoltanti, la ricercata oscenità della metà degli eventi descritti, è qualcosa di deliberatamente ricercato.
Alla chiusura del romanzo, infatti, ci ritroviamo a leggere una postfazione scritta da un immaginario studioso, che analizza nei minimi dettagli la bruttezza e l’oscenità di questo romanzo. Diviene ormai evidente come Spinrad abbia voluto fino in fondo cercare di entrare nella mente malata, deviata e contorta del dittatore, esprimendo a parole il suo pensiero morboso. Spinrad si diverte infine ad utilizzare le proprie parole per evidenziare ogni singolo tratto della malata personalità del dittatore.
L’esagerata simbologia fallica, il rapporto malato con le donne, l’antisemitismo, l’ossessione e la paranoia, l’osceno narcisismo e l’inquietante amore per la violenza del “nostro” dittatore, vengono analizzati tramite le parole dello scrittore, in un’analisi a tratti divertente e a tratti deprimente per quello che esprimono.

Effettivamente, Hitler sembra presumere nel libro che masse di uomini in uniformi feticistiche, che marciano con precisione maniacale e con uno spiegamento di gesti e parafernali fallici, eserciteranno un fascino potente su esseri umani normali.

[…]

La violenza confina nel libro con la psicosi. Hitler descrive i massacri più tremendi come se non solo li trovasse attraenti, ma presumesse che anche i lettori ne siano altrettanto affascinati.

[…]

Qui al lettore viene offerto, per così dire, qualcosa di probabilmente unico in tutta la letteratura: la più orribile, perversa e odiosa violenza descritta da un autore che naturalmente è convinto che simili odiosi spettacoli siano edificanti, istruttivi e addirittura espressioni di nobiltà.

E infine, su tutto:

Ovviamente, una simile psicosi nazionale non potrebbe mai prendere piede nel mondo reale; la supposizione di Hitler che non soltanto potrebbe accadere, ma che sarebbe addirittura un’espressione di cosiddetta volontà razziale prova che lui stesso soffriva di una simile malattia.

Leggere passaggi simili strappa un sorriso e deprime, perché è facile immaginare come in un mondo in cui Hitler non si è dedicato alla politica cose che realmente ha realizzato possano apparire assurde e inconcepibili, mentre nella realtà gli esseri umani si sono rivelati all’altezza di un leader malato, morboso, perverso e sadico, la cui unica vera qualità era quella di essere un trascinatore di masse.

In definitiva, Il signore della svastica è difficile da giudicare: è un brutto romanzo, scritto male, ma per decisione volontaria ed elucubrata. D’altra parte, è un romanzo geniale e folgorante, che si dovrebbe leggere per inquadrare la nostra realtà in una prospettiva un po’ diversa.

VOTO: 6.5/7.5

Recensione Libri: In certi quartieri, Mario Valentini

TRAMA:

Una raccolta di racconti composti come il diario di città di un forestiero curioso e un po’ disorientato per strade e quartieri di Palermo. Rumori di fondo tra cui nascono personalissimi umori, e suoni e voci e vizi e stravaganze che lasciano improvvisamente il campo a inaspettati silenzi. Una scrittura semplice e straniante che dichiara tutta la propria simpatia per l’inappartenenza accompagna il lettore attraverso uno dei libri meno palermitani ambientati a Palermo. Tra verità e invenzione, l’autore sceglie l’immaginazione: stare in un posto ma contemporaneamente anche altrove. E i quartieri, i personaggi che li abitano, e che abitano queste storie, in certi casi sembrano quasi sfumare verso territori indistinti, visitabili solo inoltrandosi in un libro di racconti. Unico vero luogo in cui collocare certi quartieri.

RECENSIONE:

In certi quartieri è un libro che ho pescato, più a meno a caso, in uno scatolone pieno di libri vinto con degli amici ad un concorso sui libri. Edito da una “piccola” casa editrice siciliana, Mesogea, mi ha incuriosità più degli altri perché, dal piccolo frammento di contenuti della quarta di copertina, mi aveva intrigato. Lo stile sembrava semplice, ma i contenuti arguti. Questo perché io, nella mia inguaribile ingenuità, in quel piccolo stralcio ho visto qualcosa di metaforico e allusivo.
Invece, a lettura finita, non posso che definire questo libretto in un modo: deludente. Il che è tutto dire, visto che da un libretto del genere non è che le mie aspettative fossero chissà quali.

Il libretto in questione – piccolo da far quasi compassione – si presenta diviso in due parti. Nella prima, il protagonista – un laureando trasferitosi da pochi anni a Palermo, figura in cui è facile riconoscere l’autore stesso, anche lui “emigrato” a Palermo ormai in età adulta – ci rifila un bel po’ di aneddoti sulla Sicilia. Il tono è ironico, a tratti irriverente, ed espone tutto con una semplicità quasi insultante. Il tutto sembra in verità ben distante dalla realtà cittadina a cui personalmente sono abituata (l’episodio sul parcheggiatore abusivo, ad esempio: ci viene presentata un’orda di cittadini palermitani “bene” che difendono a spada tratta questa figura fin troppo diffusa tra le nostre strade. E quando il povero straniero, nella sua inguenuità si ritrova a dire, infuriato, che è un esponente della malavita, un delinquente, un ladro ed un criminale, si sente tacciato di ignoranza, perché il parcheggiatore abusivo è un uomo onesto ed un lavoratore necessario per il bene della città. Ma che stronzata, ne conoscessi uno di palermitano che non odia il parcheggiatore e che non si farebbe dieci chilometri in più piuttosto che pagare questa tassa), ma, in fin dei conti, come detto nella presentazione, questo libro sembra fondere realtà e fantasia, stereotipi e realtà giornaliera.

Nella seconda parte, abbastanza più interessante, ci vengono presentati una serie di personaggi dalle origini più o meno siciliane. Abbiamo l’edicolante fatto impazzire dalla gente che deve decidere come mettere in mostra i prodotti, il filosofo immigrato, il celebre attore che ha fatto la propria fortuna in America. Alcuni episodi strappano una risata, altri fanno sbadigliare, quasi tutti sembrano voler inquadrare – non sempre riuscendoci – una precisa realtà del capoluogo siciliano. Non avesse compiuto una scelta poco riuscita in alcuni casi, sarebbe anche potuto riuscire nell’intento.

Qual è dunque il grande problema di questo libretto, quello che a tratti me l’ha fatto trovare intollerante e che mi ha fatto provare un forte senso di delusione a lettura terminata? Semplice: la scelta dello stile.
Almeno, mi auguro vivamente che di scelta e di stile si tratti, visto che leggo che Valentini tiene anche seminari di scrittura creativa. Il problema è che ho trovato questa scelta, personalmente, estremamente sgradevole.
Le espressioni sono colloquiali, spesso ridondanti, la maggior parte delle volte ripetitive fino alla nausea. La lettura di questi brevissimi racconti su piccoli episodi quasi personali ricorda violentemente la lettura di certi temini di seconda media su “Parlami della tua abitazione”. Il protagonista si perde a raccontarci come si trovi meglio a studiare dopo aver evaquato lo stomaco, e ci spiega a modo suo esponenti della cultura generale, nei toni semplicistici che potrebbe usare un ragazzino con una vaga idea di cosa stia parlando. L’impressione che se ne ricava, oltre ad una grande confusione, è che il personaggio in questione sia tanto convinto di essere meglio degli altri da dover semplificare al massimo gli argomenti di cui sta parlando, perché altrimenti il lettore menomato non riuscirebbe a comprendere.
Esempio plateale di tutti questi difetti (estrema ripetitività, sintassi oltre modo colloquiale e infantile, spiegazione di personaggi in tono semplicistico), messi insieme in pochissime righe, sono i seguenti estratti.

I presocratici, dicevo sempre in quei giorni a tutti i conoscenti con cui, anche per poco, chiacchieravo (tutte persone che non avevano fatto studi classici ma piuttosto economici e giuridici o che non avevano mai fatto studi), i presocratici, dicevo a questi conoscenti (tutte persone con cui potevo fare lo sbruffone e con cui non era necessaio un atteggiamento avvertitamente filologico), i presocrtici erano gente un po’ rozza, ma acuta per tantissimi versi.

Silvio Ingrillì era nato e cresciuto al Borgo Vecchio, città di Palermo. Però il cognome non è originario. Pare venga piuttosto dal Nord Italia. Cominciò a fare teatro nell’imediato dopoguerra. Al Borgo Vecchio il padre di Silvio Ingrillì lavorava da maniscalco. La vena artistica Silvio Ingrillì l’aveva assimilata sin da piccolo da suo padre, che già all’età di otto anni suonava la grancassa nella banda del quartiere.
Poi venne la guerra. Dopo ancora Silvio Ingrillì cominciò a fare treatro.
Con il teatro Silvio Ingrillì divenne famoso, però in America, e il perché lo racconteremo tra poco.

In sostanza, un libro interessante sotto alcuni punti di vista, ma la cui lettura comunque non mi sento di consigliare. Forse potrebbe riultare gradevole a qualche abitante della periferia palermitana, ma in realtà nutro parecchi dubbi anche su questo.

VOTO: 2.5/10