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Non sono sparita

No, non ho deciso di lasciar morire di nuovo il blog.
Solo che attendevo di avere qualcosa di interessante da scrivere, ma i giochi che sto facendo per ora – Watch Dogs su PS4 e Luigi’s Mansion 2 su 3DS – non mi stanno prendendo come avrebbero dovuto e quindi vanno per le lunghe (oddei, Luigi credevo di finirlo oggi, ma mi sono svegliata malaticcia e nervosa, non lo stato ideale per fare gli ultimi livelli di questo gioco a tratti veramente snervante), idem il libro che sto leggendo – Il Vangelo Proibito di David Gibbins, un titolo che è già tutto un programma -, e quindi per ora non ho nulla di cui scrivere.

In realtà l’altro giorno avevo cominciato e poi cassato un articolo sul femminismo – ultimamente se ne sentono di tutti i colori, volevo esprimere la mia opinione da femmina non femminista – e una recensione sul film animato Justice League War – solo che poi ho pensato che non ne capisco niente, oltre a dire che la storia era bella e i disegni così belli che avrei dato volentieri la mia mano sinistra per disegnare così non avrei potuto dire altro.

Insomma, in questi giorni giochiccio, disegnicchio, guardo film di Star Trek e sto male.

Questo post è giusto per dire “non ho di nuovo abbandonato il blog”.
Se tutto va bene spero di tornare presto in pista con nuove recensioni inutili e fumetti ancora più inutili.

Vi lascio con una pessima fan art ispirata al film della Justice League che ho fatto la scorsa settimana.

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Recensione Libri: Hyperion, Dan Simmons

TRAMA:

Sette pellegrini in viaggio verso le Tombe del Tempo. Ciascuno con un terribile segreto e una speranza. Attraverso la galassia in guerra vanno incontro allo Shrike: un semidio metallico e assetato sangue, dominatore di Hyperion. Nella valle delle Tombe del Tempo, di fronte allo Shrike, si compirà il loro destino. Per uno, uno solo, la realizzazione del più grande dei sogni. Un’affascinante e del tutto inedita epopea stellare. Una formidabile avventura nel tempo e nello spazio, fino alle ultime frontiere della scienza e della fantasia.

RECENSIONE:

Come al solito, nell’iniziare questo libro avevo solamente una vaga idea di quello a cui andavo incontro. Per questo, onestamente, nelle prime pagine, nonostante mi fosse stato entusiasticamente consigliato, mi sono ritrovata a storcere un po’ il naso. Non che mi dispiacesse, per carità, ma mi stava lasciando leggermente perplessa.
Fortunatamente, avanzando con la lettura, sono stata pienamente contraddetta.
Hyperion è un libro di fantascienza, anzi, un Signor libro di Fantascienza, con la F maiuscola. Era dai tempi della Fondazione di Asimov che un libro di fantascienza non mi lasciava tanto soddisfatta.
Il mondo rappresentato in questo fantastico libro è, ovviamente, un nostro futuro. Non ci viene fatta una lunga, noiosa e dettagliata presentazione: già dalle prime pagine veniamo catapultati nello scorrere degli eventi, nei vicoli delle città, nelle tortuose ambiguità dei ricordi dei vari personaggi giostrati con maestria dall’incredibile Simmons.
Piano piano, la storia, la civiltà e la complessa struttura di questo universo ci viene chiarita. Velo dopo velo viene sottratto, mostrandoci questa organizzazione incredibile, fin nei suoi più profondi intrighi e orrori nascosti.

Siamo nel ventottesimo secolo. Un grande Errore ha distrutto la Vecchia Terra (ma si tratterà veramente di un errore?) e l’umanità si è sparpagliata in decine di pianeti più o meno piccoli, una rete di mondi colonizzati governata dall’Egemonia. Hyperion è uno di questi pianeti, non uno dei più grandi, non uno dei più importanti politicamente. Anzi, a dire il vero, non fa neanche ancora parte completamente dell’Egemonia. Ma qui risiede qualcosa di unico e irripetibile: su Hyperion, infatti, abita lo Shrike, una sorta di divinità meccanica che sembra aver potere sul tempo e sulla vita degli uomini.
Ogni anno, molte persone – scelte tra i più fedeli – fanno un pellegrinaggio allo Shrike, con qualche desiderio in tasca. I pellegrini devono andare in un numero primo, e solo il desiderio di uno di loro verrà realizzato. Gli altri verranno assassinati.
In un momento in cui una nuova guerra sta per scoppiare, un ultimo pellegrinaggio viene mandato incontro a questa divinità. Sette, tra uomini e donne, sono diretti ad incontrare lo Shrike. Il loro è un pellegrinaggio più unico che raro: nessuno di loro, infatti, è un fedele di questa religione.
Per affrontare il viaggio, e con la speranza che questo possa salvare le loro vite nel momento chiave, i sette decidono di narrare ognuno la propria storia.
Ed è in questo che risiete il nucleo pulsante di questa strepitosa opera di fantascienza.
Piano piano, racconto dopo racconto, il puzzle di questa società incredibile si completa, si complica, si rafforza e si dipana, rivelando intrighi, misteri, magie del futuro e una storia profonda e ben strutturata.
Hyperion sembra ricalcare le orme del celebre “The Canterbury Tales“, sebbene il numero di pellegrini sia molto inferiore.
Il mondo, anzi, il futuro che ci viene presentato, pur nella sua assurda fantascientificità, appare solido e credibile. Anche questa era una sensazione che non provavo dai tempi della Fondazione. L’universo nella sua impossibilità sembra plausibile, anzi, probabile. Nella sua descrizione minuziosa e puntigliosa sembra già reale, già avvenuto. E’ un dono che pochi scrittori possiedono, quello di creare, con una tale precisione e una tale consapevolezza di dettagli, un intero universo, capace di portare il lettore a provare l’ambigua sensazione di conoscerlo da sempre.

Insomma. Dopo tante parole, il concetto è solo uno, puro e semplice: Hyperion è un libro meraviglioso. Non credo che si debba essere appassionati di fantascienza per apprezzare la sua sottile complessità, il suo universo intricato, la sua scrittura precisa e coinvolgente.
Nonostante sia il primo volume di una tetralogia, è un libro autoconclusivo. Nelle intenzioni di Dan Simmons, infatti, non doveva avere altri seguiti. Sicuramente, personalmente, leggerò anche i seguiti, ma già questo libro, da solo, è un piccolo tesoro.
Da leggere. Raramente mi sono sentita di consigliare un altro libro tanto quanto consiglio vivamente questo.

VOTO: 10/10

Recensione Libri: Rabbia, Chuck Palahniuk

TRAMA:

“Come la maggior parte delle persone, anch’io non avevo mai incontrato Rant Casey né ci avevo mai parlato finché non è morto. Con la gente famosa è sempre così, quando tirano le cuoia la loro cerchia di amici intimi si ingantisce.”

Rabbia prende la forma di una storia (romanzesca) orale di Buster “Rant” Casey, nella quale un assortimento di amici, nemici, ammiratori, detrattori e familiari dice la sua su questo personaggio ambiguo, morto in circostanze tanto misteriose quanto leggendarie, che forse è stato (ma forse non è stato) il più efficiente serial killer della nostra epoca.

“Buster Casey sarebbe dunque per la rabbia ciò che ‘Typhoid Mary Mallon è stata per il tifo, Gaetan Dugas per l’Aids e Liu Jian-lun per la Sars.”

Buster è cresciuto in una cittadina nel mezzo del nulla, assetato di sensazioni forti in un mondo di videogames e di soffocante conformismo. Dopo le prime ribellioni al liceo scappa dal suo villaggio natale alla volta della grande città: cerca qualcosa, una comunità di persone, un’emozione inimmaginabile, un bandolo della matassa, un senso per la propria esistenza. E ben presto diventa il leader di un gruppo di giovani dediti a una sorta di rito-gioco di demolizione urbana chiamato “party crashing”: nelle notti prescelte i partecipanti decorano in modi bizzarri le loro auto e quando arriva il momento cominciano ad attaccarsi a vicenda cercando di cozzare con le proprie vetture contro quelle degli altri. Ed è proprio in occasione di una di queste violente cacce notturne che Casey incontra la più spettacolare e tragica delle morti al volante. Ma Casey è morto davvero?

RECENSIONE:

Palahniuk era uno dei miei autori preferiti, intorno ai 19/20 anni. Entravo in libreria e, se non trovavo altro da prendere, me ne uscivo con uno dei suoi libri sottobraccio. Ma probabilmente non è uno di quegli autori di cui si possa abusare senza risentirne. Con Invisible Monsters e Cavie, infatti, raggiunsi il limite di pulp che potessi sopportare, e lo abbandonai, complice il fatto che non vi vedessi più nulla né di originale né di innovativo in questo autore che sembrava voler continuamente fare a gara con sé stesso a chi disgustava di più il lettore.
Eppure, dopo quasi quattro anni di distanza, ho deciso di riprovarci con Rabbia.
La lettura è stata sorprendente, come il ritrovarsi con un vecchio amico con cui incredibilmente sentiamo di avere ancora molto da condividere. Oltretutto, probabilmnente responsabile anche il lungo distacco, le parole sembravano nuove, i contenuti rinfrescati, la storia colma di nuovi significati oltre il semplice disgusto.

Ma, appunto, parliamo della storia.
Fin dalle prime parole ci si trova di fronte a qualcosa che suona strano. Ci si ferma interdetti, non comprendendo esattamente cos’è che provoca questa incertezza. “Mah“, si pensa, “è Palahniuk“, e si va avanti.
Le voci che si uniscono nel raccontare la storia di Buster “Rant” Casey sono diverse e ben coreografate, sembra quasi di sentirle parlare nella propria testa, ognuna con un accento ed un’inflessione diversa, ognuno con una proprietà dialettica ed un bagaglio culturale differente. Alcuni parlano perché hanno vissuto in prima persona gli eventi narrati, altri solo per sentito dire all’interno del paese, altri riferiscono quanto Rant stesso ha narrato. Per questo le varie voci narranti sembrano a volte discostarsi leggermente una dall’altra, ma proprio per questo, finiscono col completarsi armoniosamente.

Rant è un ragazzino anormale, indubbiamente. La sua famiglia non è delle migliori, lo stesso padre sembra fregarsene del figlio. Ha doti incredibili: ha i sensi particolarmente sviluppati, ed un’incredibile resistenza ai veleni, per i quali nutre uninsana dipendenza che lo porta ad infilare mani e braccia in ogni tana di animale selvatico che incontra.
Ed è affetto dalla rabbia. Malattia cui crea una vera e propria epidemia nel suo paese, malattia che lo renderà macrabamente famoso.
La sua vita, descritta attraverso un coro di voci che lo plaudono o lo rimproverano, lo rimpiangono e lo recreminano, scorre tra qualche scappatella e qualche ribellione, finché non decide di lasciare il paese e raggiungere la città.
A questo punto c’è il dialogo chiave che permette di cominciare ad avere un sospetto fondato su cosa sta succedendo.
Subito dopo, tutto cambia.
Quello che poteva sembrare un normale, per quanto bizzarro, romanzo di narrativa, si sconvolge, presentando un mondo totalmente diverso da quello che conosciamo e in cui, fino a quel momento, credevamo fosse ambientato il romanzo. La civiltà che ci viene presentata è simile ma avanzata, con meno diritti, classi sociali differenti, e tecnologie totalmente sconosciute e quasi fantascientiche.
In questo mondo, Rant si ritrova a compiere ricerche su sé stesso, per poi scomparire, lasciando alle sue spalle amici adoranti e una taglia sulla testa.
Da questo punto non dico più nulla, perché ogni parola potrebbe rovinare il gusto di una lettura imprevedibile e sbalorditiva, accattivante e gustosa.

Rabbia è un romanzo strutturato perfettamente e presentato ancora più perfettamente. L’unica pecca sta in qualche passo che si dilunga un po’ troppo nello spiegare cose che, bene o male, si intuiscono facilmente.

Rabbia è un romanzo che consiglio vivamente a chi ha voglia di una lettura inconsueta, che è disposto ad accettare i dettagli più morbosi – ma neanche tanto, per gli standard di Palahniuk – e ad ascoltare le storie più incredibili.
Alla fine, chi può sapere qual è la realtà?

VOTO: 9/10

Recensione Libri: Il Signore della svastica, Norman Spinrad

Già nella copertina: “Se Hitler fosse stato uno scrittore, questo sarebbe stato il suo romanzo più allucinante”

TRAMA:

Il romanzo è presentato dall’autore come il capolavoro di un famoso scrittore di fantascienza, Adolf Hitler, esiliato dalla Germania nel 1913 e morto a New York nel 1954. Nelle settimane precedenti la sua morte, avrebbe scritto la storia di Feric Jaggar, il signore della svastica, una storia folle e surreale di conquista dell’universo da parte di una razza superiore di Veri Uomini. Nel 1142 A. F. (anno del Fuoco) il vero uomo Jaggar, alla testa di un esercito di fanatici, le SS, muove alla conquista del mondo, sterminando ogni forma di vita che non corrisponda ai suoi canoni di razza pura e perfetta.

RECENSIONE:

Il signore della svastica è unanimemente riconosciuto come il capolavoro di Adolf Hitler, il celebre scrittore di fantascienza morto a New York nel 1954. La genesi del romanzo, che precedette di poche settimane la morte dell’autore, è singolare come il contenuto del libro. Hitler scrisse la storia di Feric Jaggar, il signore della svastica, in una sorta di delirio allucinato.

Fin dalle prime, bizzarre righe di quest’opera inconsueta, si ha l’impressione di essere stati catapultati in un altro mondo, in un universo parallelo e stranamente sbagliato. Ed è proprio questo lo scopo che sembra voler raggiungere il brillante Spinrad. Apparentemente, l’autore sembra voler rispondere alla domanda: che ne sarebbe stato dell’odioso despota se, invece di continuare per la strada che lo portò ad essere il leader politico più invasato degli ultimi tempi, fosse emigrato in America? La risposta ci viene fornita fin dalle prime pagine: sarebbe diventato un disegnatore (molti sanno già che Hitler aveva notevoli aspirazioni artistiche), illustratore per riviste di fantascienza, e infine scrittore del genere e esponente importante in questo ambiente.
E’ quello che abbiamo di fronte è il romanzo che, chissà, forse Hitler avrebbe scritto se le cose fossero andate diversamente.

Chi sa se il nostro caro Waloternativo ha avuto “l’onore” di conoscere Hitler scrittore. Tra mondi paralleli ci si intende, no…

L’oscuro emigrante tedesco costretto ad abbandonare la Germania nel 1919 in seguito al fallimento di un putsch di elementi di estrema destra rivive nel romanzo i suoi sogni di dominio del mondo. Una volontà di potere folle e disumana pervade tutto il libro, storia di una delirante conquista dell’universo da parte di una razza superiore di Veri Uomini. La forza fantastica di queste pagine è tale che il lettore si domanda smarrito che cosa sarebbe potuto accadere se, invece di diventare uno scrittore, Hitler avesse potuto portare avanti i disegni politici intessuti in un momento di illusoria frenesia nella Germania sconvolta della Repubblica di Weimar.

Dare un giudizio finale a questo romanzo è qualcosa di molto difficile, per me.
L’idea che ha dato vita a quest’opera, e i passi iniziali della sua realizzazione, sono a dir poco geniali. Durante la lettura dei brevi passi che ho citato, mi sentivo emozionata, divertita, eccitata e conquistata.
Però, quando si passa alla lettura del romanzo (vincitore del premio Hugo in questo mondo parallelo immaginato da Spinrad), non si può non rimanere leggermente delusi.
Quest’opera geniale si divide in tre parti. La preparazione al romanzo di Hitler – geniale -, il romanzo di Hitler – noioso -, e l’analisi del romanzo – di nuovo geniale.
Se avessi letto solamente il romanzo, il parere sarebbe stato indubbiamente negativo. Le descrizioni forzate e ridondanti, ripetitive e noiose, la trama banale dell’eroe predestinato e perfetto che deve sconfiggere i cattivoni brutti, sporchi e puzzolenti, le battaglie descritte con un’ossessività quasi inquietante e morbosa per la violenza e il disgustoso, e il linguaggio stentato e incespicante, fanno di quest’opera un romanzo a dir poco mediocre.
Terminata la lettura del “romanzo di Hitler“, però, scopriamo quello che forse avremmo potuto immaginare dall’inizio, visto come ci viene presentata l’opera: la bruttezza di questo romanzo è stata accuratamente scelta, levigata e curata. Norman Spinrad s’è preso l’agognata libertà di scrivere un romanzo brutto affinché sembrasse brutto dall’inizio alla fine.
I personaggi piatti e insignificanti, la trama ordinaria e noiosa, le descrizioni ripetitive e rivoltanti, la ricercata oscenità della metà degli eventi descritti, è qualcosa di deliberatamente ricercato.
Alla chiusura del romanzo, infatti, ci ritroviamo a leggere una postfazione scritta da un immaginario studioso, che analizza nei minimi dettagli la bruttezza e l’oscenità di questo romanzo. Diviene ormai evidente come Spinrad abbia voluto fino in fondo cercare di entrare nella mente malata, deviata e contorta del dittatore, esprimendo a parole il suo pensiero morboso. Spinrad si diverte infine ad utilizzare le proprie parole per evidenziare ogni singolo tratto della malata personalità del dittatore.
L’esagerata simbologia fallica, il rapporto malato con le donne, l’antisemitismo, l’ossessione e la paranoia, l’osceno narcisismo e l’inquietante amore per la violenza del “nostro” dittatore, vengono analizzati tramite le parole dello scrittore, in un’analisi a tratti divertente e a tratti deprimente per quello che esprimono.

Effettivamente, Hitler sembra presumere nel libro che masse di uomini in uniformi feticistiche, che marciano con precisione maniacale e con uno spiegamento di gesti e parafernali fallici, eserciteranno un fascino potente su esseri umani normali.

[…]

La violenza confina nel libro con la psicosi. Hitler descrive i massacri più tremendi come se non solo li trovasse attraenti, ma presumesse che anche i lettori ne siano altrettanto affascinati.

[…]

Qui al lettore viene offerto, per così dire, qualcosa di probabilmente unico in tutta la letteratura: la più orribile, perversa e odiosa violenza descritta da un autore che naturalmente è convinto che simili odiosi spettacoli siano edificanti, istruttivi e addirittura espressioni di nobiltà.

E infine, su tutto:

Ovviamente, una simile psicosi nazionale non potrebbe mai prendere piede nel mondo reale; la supposizione di Hitler che non soltanto potrebbe accadere, ma che sarebbe addirittura un’espressione di cosiddetta volontà razziale prova che lui stesso soffriva di una simile malattia.

Leggere passaggi simili strappa un sorriso e deprime, perché è facile immaginare come in un mondo in cui Hitler non si è dedicato alla politica cose che realmente ha realizzato possano apparire assurde e inconcepibili, mentre nella realtà gli esseri umani si sono rivelati all’altezza di un leader malato, morboso, perverso e sadico, la cui unica vera qualità era quella di essere un trascinatore di masse.

In definitiva, Il signore della svastica è difficile da giudicare: è un brutto romanzo, scritto male, ma per decisione volontaria ed elucubrata. D’altra parte, è un romanzo geniale e folgorante, che si dovrebbe leggere per inquadrare la nostra realtà in una prospettiva un po’ diversa.

VOTO: 6.5/7.5